Dedicato a Primo Levi

Il 27 gennaio del 2020, un piccolo gruppo di studentesse e studenti della classe V del corso scientifico del Liceo Alessandro Volta si è recato a Roma per presentare – nel contesto di un concorso nazionale aperto a tutte le scuole – un lavoro di approfondimento dedicato all’ultimo lavoro di Primo Levi, I sommersi e i salvati. In quello stesso anno, il nostro Liceo avrebbe dovuto ospitare un corso di formazione aperto a studentesse, studenti, docenti e al pubblico interessato, con lo scopo di dar vita a un ritratto a più voci di questo scrittore, chimico e testimone della Shoah, la cui voce ancora ci accompagna nella scoperta dell’universo concentrazionario. Il primo incontro ha avuto luogo venerdì 21 febbraio; dal lunedì successivo la nostra scuola, come tutte le altre in Italia, è stata chiusa e gli incontri si sono trasformati in registrazioni di fortuna che i nostri relatori ci hanno generosamente regalato, per portare a termine, nel solo modo allora possibile, il nostro omaggio a Primo Levi.

Sono passati alcuni anni, ed ora abbiamo uno spazio dove pubblicare quanto pensato e scritto in quella occasione: speriamo, in questo modo, di offrire un contributo alla riflessione di ciascuno sul tema della memoria della Shoah e alla lettura del saggio di Primo Levi, la nostra ‘radice prima’.

La radice prima. Riflessioni su e da Primo Levi

Introduzione

Alla base della stesura di questo saggio, che abbiamo presentato a Roma il 27 gennaio 2020, in occasione della celebrazione della Giornata della Memoria organizzata dall’Associazione “Proteo Fare-Sapere”, c’è in realtà un lungo percorso di avvicinamento a Primo Levi e alla sua opera, costellato di esperienze di lettura e formative, tra le quali certamente spiccano quelle proposte dal Centro Studi Primo Levi di Torino e dal CDEC di Milano, alcune conferenze tenutesi presso l’università degli Studi di Torino e l’Università Cattolica di Milano; la lettura – in forma integrale o antologica – di molte delle sue opere e di autori che hanno fatto della sua opera l’oggetto della loro ricerca. Ci siamo poi seduti – io e il gruppo di studentesse e di studenti che hanno più fattivamente partecipato all’iniziativa – intorno a paio di banchi per decidere in quale direzione indirizzare il nostro lavoro di ricerca: di fronte alla mole dei materiali acquisiti o semplicemente visionati, abbiamo compreso la complessità del percorso che avevamo scelto di affrontare, e che ci pareva di poter visualizzare in una sorta di solido solo apparentemente trasparente, attraversato da piani tra loro non paralleli, che – intersecandosi – davano vita a altri solidi. Abbiamo allora contemplato la possibilità di limitarci a leggere e poi a riproporre, in forma di sintesi, saggi, analisi, approfondimenti già svolti da altri studiosi – ricostruire, in un certo senso, le radici che ci avevano permesso di conoscere e approfondire la figura e la vicenda esistenziale e il ruolo di scrittore di Primo Levi, ma l’abbiamo scartata quasi subito: non ci siamo, infatti, sentiti in grado di affrontare l’imponente bibliografia già esistente, né di poter produrre un testo di ricerca che fosse originale.

            Soprattutto abbiamo compreso che non era questo il senso che avremmo voluto dare al nostro lavoro, perché potesse essere utile per noi e per gli altri lettori. Abbiamo così deciso di realizzare un saggio che raccogliesse i frutti generati dal nostro incontro con l’intellettuale e l’uomo Primo Levi. Abbiamo comunque recensito una discreta quantità di bibliografia, condiviso le nostre opinioni e poi ciascuno di noi si è raccolto in sé stesso o in sé stessa per scrivere i paragrafi che costituiscono questo testo. Frutto – dunque – di un lavoro insieme collettivo e individuale, in cui le opinioni, le riflessioni e le prospettive di ciascuno degli autori e delle autrici si richiamano tra loro.

            Abbiamo scelto di intitolare il nostro saggio La radice prima, non solo per ricordare l’amore che Levi nutriva per i giochi linguistici, ma soprattutto perché abbiamo capito che le nostre riflessioni e le nostre parole sono nate come germogli da Primo Levi; anche per questo abbiamo scelto come simbolo del nostro lavoro un albero dalle radici intrecciate, disegnato a mano e ripassato pazientemente con la china. Un gesto di omaggio a un uomo che ci ha insegnato che con le mani si può pensare, che non c’è dignità senza lavoro, che la parola chiara è un gesto di responsabilità, che capire non significa giustificare, che per trasformare la memoria individuale in un patrimonio collettivo, è necessario lavorare in profondità, senza farsi spaventare dalla complessità del quadro, perché se così fosse la memoria resterebbe un semplice ricordo e non è questo che, a nostro parere, è necessario nell’attuale momento storico.

Alla maniera di Levi: la scienza come metafora

(a cura di Martina Mauri)

Mi sembrava opportuno sfruttare il rapporto del chimico con la materia, con gli elementi, come i romantici dell’Ottocento hanno fatto con il paesaggio: elemento chimico-stato d’animo come paesaggio-stato d’animo […] Perché dunque non creare un dramma dove i personaggi sono gli elementi di cui la materia è composta? […] E la chimica mi ha fornito gli argomenti per un libro e due racconti. Me la sento in mano come un serbatoio di metafore […] Il fatto è che chiunque sappia cosa vuol dire ridurre, concentrare, distillare, cristallizzare, sa anche che le operazioni di laboratorio hanno una lunga ombra simbolica[1].

            Così diceva Primo Levi parlando de Il sistema periodico durante la conferenza Lo scrittore non scrittore, tenutasi il 19 novembre del 1976, in occasione di uno dei “Venerdì letterari” organizzati dall’Associazione culturale italiana presso il Teatro Carignano di Torino.  

            Tuttavia, da una lettura attenta delle opere di Levi, emerge quanto sia ancora più profondo il ruolo che la formazione scientifica ha giocato nella sua produzione letteraria: l’agilità acquisita negli studi chimici non si è limitata, infatti, a fornirgli le competenze necessarie per formulare metafore inusuali e innovative, ma ha profondamente influenzato tutto il suo stile, al tempo stesso fluido ed essenziale, e lo sguardo con cui si accosta – in particolare – alla testimonianza circa l’ esperienza nel Lager, che egli stesso definisce come “una gigantesca esperienza biologica e sociale[2].

In primo luogo, è interessante osservare l’acuta attenzione che Levi riserva alla scelta del lessico, impegnandosi a “separare pesare e distinguere”[3] i termini, in modo da trovare quello che meglio rifletta la natura dell’oggetto cui si riferisce, esattamente come un chimico sceglie e dosa con estrema precisione i reagenti per massimizzare la qualità e la quantità dei prodotti della reazione. Nel Dialogo con Tullio Regge[4]egli riconosce di essere “più ricco di altri colleghi scrittori poiché, pur avendo a che fare con una “chimica ‘bassa’, alcune parole (come ‘chiaro’, ‘scuro’, ‘pesante’, ‘leggero’, ‘azzurro’) assumono nella sua mente una “gamma di significati più estesa e più concreta” e si potrebbe aggiungere più completa e precisa se non addirittura differente rispetto a quelli che sono loro assegnati nel contesto quotidiano.

Questa cura a tratti quasi maniacale nella scelta del lessico risponde anche al martellante bisogno che Levi sente di stabilire con il lettore una comunicazione chiara e libera da fraintendimenti, necessità che, come viene spiegato ne I sommersi e i salvati, ha origine dalla sua esperienza concentrazionaria. Tra le lezioni più importanti che lo scrittore ha appreso ad Auschwitz, due riguardano proprio la questione del dialogo e della comunicazione: da un lato, il Lager insegna che “la comunicazione genera informazione, e senza informazione non si vive”[5], dall’altro è un’indiscutibile dimostrazione del fatto “che là dove si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio”.

La riflessione sul linguaggio nasce anche dall’esperienza che Levi fece nel campo della variante particolarmente imbarbarita del tedesco, assai lontana dalla lingua tedesca, precisa e pulita, che egli aveva conosciuto grazie ai manuali di chimica come il Wassermann, su cui aveva preparato alcuni esami universitari; tra questi due linguaggi non era possibile trovare alcuna corrispondenza: esattamente come due rette parallele, destinate a non incontrarsi mai. Per dirla con Levi, insomma, si potrebbe assimilare il rapporto che intercorre tra il tedesco della scienza e quello dello sterminio alla ‘chiralità’ (oggetto della tesi di laurea di Primo Levi), ovvero il rapporto che si verifica tra molecole “identiche non solo come composizione, ma anche per tutte le proprietà”[6], eccezion fatta per il verso in cui fanno ruotare il piano della luce polarizzata. Due molecole legate da questo tipo di relazione – chiamate ‘enantiomeri’ o ‘antipodi ottici’ – non sono dunque direttamente sovrapponibili alla loro immagine speculare, esattamente come il tedesco esterno al Lager non si rispecchia in quello interno ad esso poiché, nonostante i termini che lo compongono siano in massima parte gli stessi, il loro significato viene totalmente stravolto nel nuovo contesto, come accade al termine Musselmann (mussulmano), divenuto un epiteto con cui riferirsi al “prigioniero irreversibilmente esausto, estenuato, prossimo alla morte”[7].

Alla luce della seguente considerazione, sviluppata in Se questo è un uomo, diventa addirittura possibile ampliare l’uso della metafora della chiralità, applicandola ad ogni aspetto della realtà del Lager, che diventa così un mondo parallelo o, meglio ancora, un anti-mondo nel quale ogni legge e ogni comportamento umano subiscono una metamorfosi che li porta a trasformarsi nel loro esatto opposto:

normalmente l’uomo non è solo e, nel suo salire e nel suo discendere, è legato al destino dei suoi vicini; per cui è eccezionale che qualcuno cresca senza limiti in potenza, o discenda con continuità di sconfitta in sconfitta fino alla rovina. Inoltre ognuno possiede di solito riserve tali, spirituali, fisiche e anche pecuniarie, che l’evento di un naufragio, di una insufficienza davanti alla vita, assume una anche minore probabilità. Si aggiunga ancora che una sensibile azione di smorzamento è esercitata dalla legge, e dal senso morale […] Ma in Lager avviene altrimenti: qui la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è disperatamente ferocemente solo[8].

È così che la compassione, che dovrebbe portare a soccorrere il compagno in difficoltà, diventa una cinica spietatezza che spinge invece ad approfittare della sua debolezza; è così che la consapevolezza di condividere la stessa tragica esperienza, che dovrebbe condurre colui che trova un modo per sopravvivere a condividerlo con i compagni, lo istighi al contrario a tenerselo ben stretto, per salvaguardare in primo luogo sé stesso; è così che “la legge iniqua ‘a chi ha sarà dato, a chi non ha, a quello sarà tolto’ torna apertamente in vigore ed è riconosciuta da tutti”[9].

E, esattamente come è successo nella storia fuori dal Lager, anche nell’anti-storia concentrazionaria prende forma uno “spietato processo di selezione naturale”[10] che porta alla sopravvivenza non del più umano, o del più civile, o del più colto, ma del più astuto, di colui che è capace di pensare solo a se stesso e di lasciare indietro gli altri. Anche questo paragone con la teoria darwiniana, tuttavia, rivela un’ulteriore asimmetria, poiché – nella prospettiva di Levi – viene a mancare la componente fondamentale della legge della sopravvivenza del più forte: dentro Auschwitz, infatti,  a nessuno è concesso di tramandare il proprio genotipo vincente nella lotta per l’adattamento, ma tutti sono potenzialmente destinati all’estinzione, soggetti alla brutale cecità della Fortuna.

Anche se l’anti-mondo di Auschwitz esercita una fortissima pressione psicologica sugli uomini che lo abitano, per i quali risulta praticamente impossibile sopravvivere ad esso senza smarrirvi (intenzionalmente o meno) la propria umanità, tuttavia qua e là Levi riesce a trovare degli antidoti. Un primo passo per evitare questo doloroso epilogo consiste nel ritagliarsi ogni giorno dei momenti di quotidianità, che permettano di recuperare la propria natura umana, impedendo al Lager di soffocare le singole individualità. Nell’esperienza di Levi, il ripetersi di queste piccole tregue è reso possibile dal fatto di avere – come lui dice per ‘sfacciata fortuna’ –un posto di lavoro nel laboratorio chimico della Buna. La scienza ha però indiscutibilmente salvato Levi non solo come prigioniero, ma anche come reduce: una volta tornato dalla Polonia, infatti, due erano le principali difficoltà che affliggevano lo scrittore: da un lato egli sentiva il bisogno di reinserirsi nella società, traguardo raggiunto soprattutto grazie al lavoro alla Siva, dall’altro lo opprimeva la necessità di riaffrontare il trauma individuale e collettivo che aveva vissuto per cercare di capirlo, trasmetterlo agli altri e forse elaborarlo. La risposta che Levi trova a questa esigenza è sicuramente la scrittura, che gli permette di raccontare e analizzare tutte le sue esperienze e che, quindi, assume un importantissimo ruolo terapeutico.

Tuttavia, la speranza di riuscire a superare Auschwitz rimane, appunto, solo una speranza, come ci dimostra il fatto che in quasi tutte le opere dello scrittore (compresi i racconti fantascientifici) siano presenti riflessioni che – in un modo o nell’altro – sono riconducibili a quelle fatte a proposito dell’esperienza concentrazionaria. Il Lager può essere assimilato ad un buco nero, che esercita su Levi una forza attrattiva decine di volte superiore rispetto a quella del magnete scientifico-letterario e che vede nel 26 febbraio 1944, data del suo internamento, il suo “orizzonte degli eventi”, cioè il punto di non ritorno, dopo il quale la vita di Levi cambia radicalmente e irreversibilmente. A questo punto si rende di nuovo necessario citare la chiralità, dal momento che esiste un’inconciliabile asimmetria, quasi un chiasmo, tra il buco nero e il campo di sterminio: mentre del primo conosciamo tutto sulla sua origine ma non sappiamo né cosa ci sia al suo interno né dove porti, Levi conosce esattamente gli orrori a cui l’uomo è stato condotto attraverso Auschwitz, anche se non riesce a rintracciare l’origine di tutta la violenza inutile e ingiustificata che vi ha trovato.

Un perfetto asse di simmetria si può invece trovare tra ciò che il 26 febbraio 1944 ha rappresentato per Levi e ciò che il 6 e il 9 agosto 1945 hanno rappresentato per l’umanità. Il paragone tra campo di sterminio e bomba atomica non è certo nuovo, ma risulta particolarmente valido se considerato sotto tre diversi punti di vista, ognuno corrispondente ad un determinato grado di profondità. Il primo livello dell’analogia, ovvero il più ‘superficiale’, è quello che vede coinvolta la riflessione etica riguardante il ruolo che la scienza svolge nella società, in particolare in tempo di guerra, in cui la scienza subisce la metamorfosi da strumento di progresso a mezzo di distruzione. Anche se già a partire dal primo conflitto mondiale compaiono sulla scena bellica nuove tecnologie di morte, per esempio il gas nervino, queste sono ancora lontane dall’essere delle vere e proprie forme di annientamento come furono, durante la Seconda Guerra Mondiale, il campo di sterminio e la bomba nucleare, nella cui realizzazione la scienza ha raggiunto – almeno per ora – il picco massimo del suo potenziale distruttivo. Analizzando con attenzione le due vicende, si nota immediatamente come entrambe siano legate a traguardi potenzialmente fondamentali della storia umana: nella prima è possibile osservare quello che è – per riprendere l’espressione utilizzata da Levi – il più grande esperimento sociale mai messo in pratica, alla base della seconda si trova invece il successo dell’uomo nel riprodurre il processo di fissione nucleare che lo ha portato ad imbrigliare il potere dell’energia atomica.

Il secondo livello di profondità si riferisce invece agli effetti a lungo termine: esattamente come l’inquinamento radioattivo causato dalle esplosioni atomiche ha provocato anche a distanza di decenni la morte di decine di migliaia di persone, la devastante esperienza del Lager ha oppresso Levi per tutta la sua vita, tornando ripetutamente a travolgerlo come una valanga e influenzando profondamente la sua scrittura e la sua filosofia, ma ha anche determinato il diffondersi di quello che Levi chiama il contagio del male, che come una sorta di pestilenza radioattiva ha perseguitato per decenni i deportati sopravvissuti, inducendoli in molti casi al suicidio.

Il terzo punto di contatto tra Auschwitz e il lancio delle due bombe atomiche – che devono essere considerati ciascuno nella sua singolarità, dal momento che la seconda bomba venne sganciata in piena consapevolezza dei suoi effetti devastanti – sta nel fatto che essi costituiscono uno spartiacque nella storia dell’umanità: in queste tre occasioni l’uomo si è infatti trovato al limite di ciò che era umano e ha consapevolmente scelto di valicare questo confine; abbandonando la consapevolezza di appartenere alla stessa specie, ha aperto un’irreparabile crepa all’interno di una comunità umana già fragile ontologicamente. Tale immagine diventa ancora più nitida se si tiene presente in che cosa consista la reazione da cui la stessa esplosione atomica ha origine: la fissione nucleare è infatti un processo di scissione, che fonda le sue premesse nell’instabilità dei nuclei atomici più pesanti, che decadono spaccandosi in due nuclei di elementi con numero atomico inferiore. Il rapporto causa-effetto che a livello microscopico porta alla reazione nucleare trova un’esatta corrispondenza – a livello macroscopico – nella frattura che la bomba atomica ha generato nell’umanità e per analogia dall’esperienza del Lager nella storia e nella memoria umana.

Quest’ultimo ha causato una cesura ancora più netta tra il sentimento di umanità e gli uomini, che non solo vi hanno rinunciato spontaneamente, ma hanno anche costretto altri a fare lo stesso, spezzando, come dice lo stesso Levi, “la capacità di resistenza degli avversari”[11]. Dentro Auschwitz, infatti, era praticamente impossibile trovare un uomo che fosse davvero tale, poiché da un lato c’era la disumanità della violenza delle guardie, dall’altro quella dei prigionieri che non potevano essere considerati nulla di più per non intralciare il meccanismo delle uccisioni di massa:

Nel cantiere il Kapò novellino di una squadra costituita in prevalenza di italiani, francesi e greci non s’era accorto che alle sue spalle si era avvicinato uno dei più temuti sorvegliante delle SS […]. Nel suo turbamento, aveva proprio detto ‘zweiundvierzing Männer’, ‘uomini’. Il milite lo corresse con un tono burbero e paterno: non si dice così, si dice ‘zweiundvierzing Häftlinge’, ‘quarantadue prigionieri’[12].

Una volta entrato ad Auschwitz, una delle prime cose di cui Levi si rese conto fu la dissoluzione del confine netto tra il ‘noi’ e il ‘loro’, tra ‘i deportati’ e ‘i carcerieri’, poiché il primo pronome veniva sostituito dall’’io, il cui unico obiettivo era la sopravvivenza, ottenuta talvolta anche compiendo violenza sugli altri prigionieri. Questa riflessione riprende e amplia quella già presente nella prima opera dello scrittore, secondo cui “esistono tra gli uomini due categorie ben distinte: i salvati e i sommersi. Altre coppie di contrari (i buoni e i cattivi, i savi e gli stolti, i vili e i coraggiosi, i disgraziati e i fortunati) sono assai meno nette”[13]. Si tratta della ‘zona grigia’, un luogo in cui l’uomo appare (o diventa) moralmente ‘ibrido’ agli occhi di chiunque cercasse di individuare delle categorie di classificazione.

I fisici di inizio ‘900 scoprirono che per descrivere il funzionamento delle micro-particelle non si potevano utilizzare i modelli della fisica classica con cui si potevano spiegare i fenomeni macroscopici: per esemplificare questa incompatibilità il fisico austriaco Erwin Schrödinger formulò il paradosso del gatto chiuso in una sorta di trappola mortale, di cui non sarebbe possibile stabilire la condizione di vita o di morte attraverso i modelli della fisica newtoniana, ma solo con quelli della fisica quantistica.

Analogamente Levi, chiuso nell’universo concentrazionario, si rende amaramente conto che al suo interno le categorie etiche del mondo di fuori non si possono applicare al mondo di dentro: non si può infatti, là dove la lotta per la vita è misura di tutte le cose, distinguere i buoni dai cattivi, i furbi dagli stolti: forse l’unica coppia di opposti discernibili è quella formata da sommersi e salvati.

L’ultima metafora che vorremmo associare a Levi è quella che emerge dal suo invito a non desistere mai dal cercare di capire e a non generalizzare: analogamente a uno scienziato, anche se è difficilissimo e arduo, chi è sopravvissuto ha il dovere di rendere testimonianza il più possibile chiara, pur nella consapevolezza del margine di errore, di ciò che è stato.

Come e proprio in quanto scienziato, Levi sa infatti benissimo che ciò che è accaduto una volta può ripetersi ancora: per questo motivo egli ritiene vitale rendere il più possibile precisa la descrizione di Auschwitz, così che osservandola nel dettaglio gli uomini possano cercare di evitare che esso si ripeta di nuovo.


[1] P. Levi, Lo scrittore non scrittore, in L’asimmetria e la vita. Articoli e saggi 1955-1987, cit. p. 149

[2] P. Levi, I sommersi e i salvati, in Se questo è un uomo, cit. p. 83

[3] P. Levi, Ex-chimico, in L’altrui mestiere, cit. p. 13

[4] P. Levi-T. Regge, in Primo Levi e Tullio Regge, cit. pp. 60-61

[5]  P. Levi, Comunicare, in I sommersi e i salvati, cit. p. 71

[6] P. Levi, L’asimmetria e la vita, cit.

[7] P. Levi, Comunicare, in I sommersi e i salvati, cit. p. 75

[8] P. Levi, I sommersi e i salvati, in Se questo è un uomo, cit. p. 84

[9] P. Levi, I sommersi e i salvati, in Se questo è un uomo, cit. p. 85

[10] P. Levi, ibid.

[11]

[12]  P. Levi, Comunicare, in I sommersi e i salvati, cit. p. 70

[13] P. Levi, Zona grigia, in I sommersi e i salvati, cit. p. 26

La virtù della chiarezza

(a cura di Pietro Boselli)

            Nell’articolo Dello scrivere oscuro[1], comparso su “La Stampa” nel 1976, Primo Levi delinea il profilo di quella che, dal suo punto di vista, dovrebbe essere la figura dello scrittore. Egli, per prima cosa, non dovrebbe mai dimenticare che il fine ultimo a cui la sua pratica tende è la comunicazione. Colui che scrive deve, quindi, fare il possibile per poter essere compreso dal suo ‘lettore ideale’.

È – per Levi – una questione di correttezza, di rispetto; si tratta di una regola implicita a cui gli scrittori devono attenersi, e chi la trasgredisce, chi scrive oscuro, pecca secondo Levi di ‘inadempienza contrattuale’. La necessità di farsi comprendere appare dunque come un dovere etico, e a tale dovere è in effetti riconducibile la ricerca di chiarezza che caratterizza la lingua utilizzata da Levi in tutte le sue opere, anche se è necessario precisare che l’amore per la chiarezza è perseguito parallelamente alla volontà di non cadere nella facile semplificazione della realtà.

            Secondo Levi risulta pericolosamente inadempiente chi usa ‘il linguaggio del cuore’, quello non mediato dalla razionalità, che a ben vedere, in quanto soggettivo, “non è un linguaggio affatto, o al più un vernacolo, un argot, se non un’invenzione individuale”[2]. Mi sembra particolarmente degno di nota un altro epiteto, quello di ‘mugolio animale’, che Levi attribuisce – sempre nello stesso articolo – a questo particolare tipo di non-linguaggio. L’interesse sta, a mio parere, nell’accostamento di un’immagine animale alle condizioni di incomunicabilità linguistica, stilema questo che è pressoché onnipresente nell’opera dello scrittore, e ritorna con particolare frequenza nella narrazione e riflessione riguardo all’esperienza della deportazione.

            Il primo e fondamentale motivo di importanza del linguaggio per Levi sta nel fatto che esso è prerogativa unica dell’essere umano, poiché “tutte le razze umane parlano; nessuna specie non umana sa parlare”[3]. Di conseguenza, laddove la comunicazione verbale viene meno, come accade nel Lager, l’uomo non può che andare incontro alla perdita della propria umanità. In Se questo è un uomo e ne I sommersi e i salvati Levi descrive con insistenza l’uso da parte dei nazisti di pratiche volte in questa direzione, con la duplice funzione di commettere un’offesa e di rendere più semplice l’esercizio della violenza sui prigionieri, ridotti ai loro occhi e a sé stessi alla condizione di animali.

Con chi non li capiva, i neri reagivano in un modo che ci stupì e spaventò: l’ordine, che era stato pronunciato con la voce tranquilla di chi sa che verrà obbedito, veniva ripetuto identico con voce alta e rabbiosa, poi urlato a squarciagola, come si farebbe con un sordo, o meglio con un animale domestico, più sensibile al tono che al messaggio [4].

            Anche la parola che riesce a sopravvivere, privata del suo significato, si riduce a mero significante. Questa ‘morte del linguaggio’ interessa non solo i rapporti tra carcerieri e prigionieri, ma anche i rapporti tra gli stessi deportati, poiché essi provengono da diverse zone d’Europa e parlano molte lingue, spesso assai diverse tra loro. L’isolamento dell’individuo internato ad Auschwitz si configura quindi come radicale, in quanto implica non solo una separazione con la realtà esterna al campo, ma anche con la maggior parte degli uomini in esso presenti.

            Sempre ne I sommersi e i salvati Levi scrive a proposito della comunicazione:

Come avviene per la salute, solo chi la perde si accorge di quanto valga. Ma non ne soffre solo a livello individuale: nei paesi e nelle epoche in cui la comunicazione è impedita, appassiscono presto tutte le altre libertà; muore per inedia la discussione, dilaga l’ignoranza delle opinioni altrui, trionfano le opinioni imposte. [5]

Questo passo è utile per ricondurre il discorso ad un orizzonte più ampio, ad una dimensione che si estende al di fuori delle recinzioni del campo: del resto, lo stesso Levi definisce Auschwitz come un imponente esperimento sociale, che può, pur nella sua incommensurabilità con i nostri comuni riferimenti, ricordarci e insegnarci qualcosa su aspetti della società in cui viviamo ordinariamente. Nel caso specifico, il riferimento è alle conseguenze disastrose che possono seguire la mancanza, la trascuratezza involontaria o volontaria nella comunicazione. Non meno pericolosa, infatti, è la distorsione della lingua, che secondo alcuni autori costituì un’importante premessa per il diffondersi del nazismo in Germania nel primo dopoguerra: tra le opere a questo proposito va considerata come fondamentale LTI, la lingua del Terzo Reich, citato anche dallo stesso Levi nel capitolo Comunicare de I sommersi e i salvati: si tratta – come recita la copertina – del ‘taccuino di un filologo’ tedesco di origine ebrea, Victor Klemperer, che negli anni del regime nazista ha osservato e annotato gli abusi compiuti sulla lingua tedesca dalla propaganda nazista.

            Il principale meccanismo nocivo è individuato dal filologo nella ripetizione:

Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico. Se per qualche tempo sufficientemente lungo al posto di eroico e virtuoso si dice ‘fanatico’, alla fine si crederà veramente che un fanatico sia un eroe pieno di virtù e che non possa esserci un eroe senza fanatismo.[6]

La ripetizione di lemmi utilizzati impropriamente appare in grado di veicolare, attraverso la sovrapposizione tra il significato pregresso e quello attribuito dal nuovo contesto, messaggi che a lungo andare vengono inconsciamente accolti, assumendo la capacità di influenzare subdolamente il pensiero e il sentire dei soggetti.

            Questo pericolo non è affatto limitato alla sfera del potere: posto che è noto il modo in cui anche nella politica moderna si abusi di parole come ‘libertà’ o ‘popolo’, vocabolo curiosamente amato, come sottolinea Klemperer, anche dai nazisti, le parole sono a rischio ogni volta che vengono utilizzate in un contesto improprio. Di questo argomento tratta il saggio I nomi dello sterminio[7], in cui l’autrice ripercorre l’evoluzione del significato attribuito al termine ‘Olocausto’ per indicare lo sterminio degli ebrei: gli usi impropri che sono stati fatti di questo sostantivo in ambito televisivo, giornalistico, politico, hanno di riflesso agito sulla percezione comune che si ha dell’Evento: ‘degradazione’, ‘banalizzazione’, ‘speculazione politica’ sono solo alcune delle dinamiche che – secondo l’autrice – tale termine ha subito nel corso del tempo.

            La dimensione della comunicazione assume allora un valore fondante all’interno della società umana; Levi, con la sua proposta di scrittura, offre, oltre che un modello linguistico, un modello etico di straordinaria forza, che dovrebbe contrastare la tendenza generale alla “pigrizia mentale”[8] e a ogni cedimento emotivo e irrazionale, il quale, anche nell’intento di fare del bene (nel caso specifico, di conservare o tramandare la memoria), finisce invece per danneggiare o distruggere quel che dovrebbe essere ‘inciso’ in ogni mente umana. Pena, il disfacimento individuale e il rischio del ritorno del rimosso.


[1] P. Levi, Dello scrivere oscuro, in L’altrui mestiere, in Opere, II, cit. pp. 676-681

[2] P.Levi, ibi, p. 677

[3] P. Levi, in I sommersi e i salvati, in Opere, II, cit.

[4] Primo Levi, I Sommersi e i Salvati, cit. p. 70

[5] Primo Levi, I Sommersi e i Salvati, cit. p. 81

[6] V. Kemperer, LTI (…),

[7] A. V. Callam-Calimani, I nomi dello sterminio, Einaudi

[8] P. Levi, P. Levi, in I sommersi e i salvati, in cit. p. 1059

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