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Dedicato a Primo Levi

Il 27 gennaio del 2020, un piccolo gruppo di studentesse e studenti della classe V del corso scientifico del Liceo Alessandro Volta si è recato a Roma per presentare – nel contesto di un concorso nazionale aperto a tutte le scuole – un lavoro di approfondimento dedicato all’ultimo lavoro di Primo Levi, I sommersi e i salvati. In quello stesso anno, il nostro Liceo avrebbe dovuto ospitare un corso di formazione aperto a studentesse, studenti, docenti e al pubblico interessato, con lo scopo di dar vita a un ritratto a più voci di questo scrittore, chimico e testimone della Shoah, la cui voce ancora ci accompagna nella scoperta dell’universo concentrazionario. Il primo incontro ha avuto luogo venerdì 21 febbraio; dal lunedì successivo la nostra scuola, come tutte le altre in Italia, è stata chiusa e gli incontri si sono trasformati in registrazioni di fortuna che i nostri relatori ci hanno generosamente regalato, per portare a termine, nel solo modo allora possibile, il nostro omaggio a Primo Levi.

Sono passati alcuni anni, ed ora abbiamo uno spazio dove pubblicare quanto pensato e scritto in quella occasione: speriamo, in questo modo, di offrire un contributo alla riflessione di ciascuno sul tema della memoria della Shoah e alla lettura del saggio di Primo Levi, la nostra ‘radice prima’.

La radice prima. Riflessioni su e da Primo Levi

Introduzione

Alla base della stesura di questo saggio, che abbiamo presentato a Roma il 27 gennaio 2020, in occasione della celebrazione della Giornata della Memoria organizzata dall’Associazione “Proteo Fare-Sapere”, c’è in realtà un lungo percorso di avvicinamento a Primo Levi e alla sua opera, costellato di esperienze di lettura e formative, tra le quali certamente spiccano quelle proposte dal Centro Studi Primo Levi di Torino e dal CDEC di Milano, alcune conferenze tenutesi presso l’università degli Studi di Torino e l’Università Cattolica di Milano; la lettura – in forma integrale o antologica – di molte delle sue opere e di autori che hanno fatto della sua opera l’oggetto della loro ricerca. Ci siamo poi seduti – io e il gruppo di studentesse e di studenti che hanno più fattivamente partecipato all’iniziativa – intorno a paio di banchi per decidere in quale direzione indirizzare il nostro lavoro di ricerca: di fronte alla mole dei materiali acquisiti o semplicemente visionati, abbiamo compreso la complessità del percorso che avevamo scelto di affrontare, e che ci pareva di poter visualizzare in una sorta di solido solo apparentemente trasparente, attraversato da piani tra loro non paralleli, che – intersecandosi – davano vita a altri solidi. Abbiamo allora contemplato la possibilità di limitarci a leggere e poi a riproporre, in forma di sintesi, saggi, analisi, approfondimenti già svolti da altri studiosi – ricostruire, in un certo senso, le radici che ci avevano permesso di conoscere e approfondire la figura e la vicenda esistenziale e il ruolo di scrittore di Primo Levi, ma l’abbiamo scartata quasi subito: non ci siamo, infatti, sentiti in grado di affrontare l’imponente bibliografia già esistente, né di poter produrre un testo di ricerca che fosse originale.

            Soprattutto abbiamo compreso che non era questo il senso che avremmo voluto dare al nostro lavoro, perché potesse essere utile per noi e per gli altri lettori. Abbiamo così deciso di realizzare un saggio che raccogliesse i frutti generati dal nostro incontro con l’intellettuale e l’uomo Primo Levi. Abbiamo comunque recensito una discreta quantità di bibliografia, condiviso le nostre opinioni e poi ciascuno di noi si è raccolto in sé stesso o in sé stessa per scrivere i paragrafi che costituiscono questo testo. Frutto – dunque – di un lavoro insieme collettivo e individuale, in cui le opinioni, le riflessioni e le prospettive di ciascuno degli autori e delle autrici si richiamano tra loro.

            Abbiamo scelto di intitolare il nostro saggio La radice prima, non solo per ricordare l’amore che Levi nutriva per i giochi linguistici, ma soprattutto perché abbiamo capito che le nostre riflessioni e le nostre parole sono nate come germogli da Primo Levi; anche per questo abbiamo scelto come simbolo del nostro lavoro un albero dalle radici intrecciate, disegnato a mano e ripassato pazientemente con la china. Un gesto di omaggio a un uomo che ci ha insegnato che con le mani si può pensare, che non c’è dignità senza lavoro, che la parola chiara è un gesto di responsabilità, che capire non significa giustificare, che per trasformare la memoria individuale in un patrimonio collettivo, è necessario lavorare in profondità, senza farsi spaventare dalla complessità del quadro, perché se così fosse la memoria resterebbe un semplice ricordo e non è questo che, a nostro parere, è necessario nell’attuale momento storico.

Alla maniera di Levi: la scienza come metafora

(a cura di Martina Mauri)

Mi sembrava opportuno sfruttare il rapporto del chimico con la materia, con gli elementi, come i romantici dell’Ottocento hanno fatto con il paesaggio: elemento chimico-stato d’animo come paesaggio-stato d’animo […] Perché dunque non creare un dramma dove i personaggi sono gli elementi di cui la materia è composta? […] E la chimica mi ha fornito gli argomenti per un libro e due racconti. Me la sento in mano come un serbatoio di metafore […] Il fatto è che chiunque sappia cosa vuol dire ridurre, concentrare, distillare, cristallizzare, sa anche che le operazioni di laboratorio hanno una lunga ombra simbolica[1].

            Così diceva Primo Levi parlando de Il sistema periodico durante la conferenza Lo scrittore non scrittore, tenutasi il 19 novembre del 1976, in occasione di uno dei “Venerdì letterari” organizzati dall’Associazione culturale italiana presso il Teatro Carignano di Torino.  

            Tuttavia, da una lettura attenta delle opere di Levi, emerge quanto sia ancora più profondo il ruolo che la formazione scientifica ha giocato nella sua produzione letteraria: l’agilità acquisita negli studi chimici non si è limitata, infatti, a fornirgli le competenze necessarie per formulare metafore inusuali e innovative, ma ha profondamente influenzato tutto il suo stile, al tempo stesso fluido ed essenziale, e lo sguardo con cui si accosta – in particolare – alla testimonianza circa l’ esperienza nel Lager, che egli stesso definisce come “una gigantesca esperienza biologica e sociale[2].

In primo luogo, è interessante osservare l’acuta attenzione che Levi riserva alla scelta del lessico, impegnandosi a “separare pesare e distinguere”[3] i termini, in modo da trovare quello che meglio rifletta la natura dell’oggetto cui si riferisce, esattamente come un chimico sceglie e dosa con estrema precisione i reagenti per massimizzare la qualità e la quantità dei prodotti della reazione. Nel Dialogo con Tullio Regge[4]egli riconosce di essere “più ricco di altri colleghi scrittori poiché, pur avendo a che fare con una “chimica ‘bassa’, alcune parole (come ‘chiaro’, ‘scuro’, ‘pesante’, ‘leggero’, ‘azzurro’) assumono nella sua mente una “gamma di significati più estesa e più concreta” e si potrebbe aggiungere più completa e precisa se non addirittura differente rispetto a quelli che sono loro assegnati nel contesto quotidiano.

Questa cura a tratti quasi maniacale nella scelta del lessico risponde anche al martellante bisogno che Levi sente di stabilire con il lettore una comunicazione chiara e libera da fraintendimenti, necessità che, come viene spiegato ne I sommersi e i salvati, ha origine dalla sua esperienza concentrazionaria. Tra le lezioni più importanti che lo scrittore ha appreso ad Auschwitz, due riguardano proprio la questione del dialogo e della comunicazione: da un lato, il Lager insegna che “la comunicazione genera informazione, e senza informazione non si vive”[5], dall’altro è un’indiscutibile dimostrazione del fatto “che là dove si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio”.

La riflessione sul linguaggio nasce anche dall’esperienza che Levi fece nel campo della variante particolarmente imbarbarita del tedesco, assai lontana dalla lingua tedesca, precisa e pulita, che egli aveva conosciuto grazie ai manuali di chimica come il Wassermann, su cui aveva preparato alcuni esami universitari; tra questi due linguaggi non era possibile trovare alcuna corrispondenza: esattamente come due rette parallele, destinate a non incontrarsi mai. Per dirla con Levi, insomma, si potrebbe assimilare il rapporto che intercorre tra il tedesco della scienza e quello dello sterminio alla ‘chiralità’ (oggetto della tesi di laurea di Primo Levi), ovvero il rapporto che si verifica tra molecole “identiche non solo come composizione, ma anche per tutte le proprietà”[6], eccezion fatta per il verso in cui fanno ruotare il piano della luce polarizzata. Due molecole legate da questo tipo di relazione – chiamate ‘enantiomeri’ o ‘antipodi ottici’ – non sono dunque direttamente sovrapponibili alla loro immagine speculare, esattamente come il tedesco esterno al Lager non si rispecchia in quello interno ad esso poiché, nonostante i termini che lo compongono siano in massima parte gli stessi, il loro significato viene totalmente stravolto nel nuovo contesto, come accade al termine Musselmann (mussulmano), divenuto un epiteto con cui riferirsi al “prigioniero irreversibilmente esausto, estenuato, prossimo alla morte”[7].

Alla luce della seguente considerazione, sviluppata in Se questo è un uomo, diventa addirittura possibile ampliare l’uso della metafora della chiralità, applicandola ad ogni aspetto della realtà del Lager, che diventa così un mondo parallelo o, meglio ancora, un anti-mondo nel quale ogni legge e ogni comportamento umano subiscono una metamorfosi che li porta a trasformarsi nel loro esatto opposto:

normalmente l’uomo non è solo e, nel suo salire e nel suo discendere, è legato al destino dei suoi vicini; per cui è eccezionale che qualcuno cresca senza limiti in potenza, o discenda con continuità di sconfitta in sconfitta fino alla rovina. Inoltre ognuno possiede di solito riserve tali, spirituali, fisiche e anche pecuniarie, che l’evento di un naufragio, di una insufficienza davanti alla vita, assume una anche minore probabilità. Si aggiunga ancora che una sensibile azione di smorzamento è esercitata dalla legge, e dal senso morale […] Ma in Lager avviene altrimenti: qui la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è disperatamente ferocemente solo[8].

È così che la compassione, che dovrebbe portare a soccorrere il compagno in difficoltà, diventa una cinica spietatezza che spinge invece ad approfittare della sua debolezza; è così che la consapevolezza di condividere la stessa tragica esperienza, che dovrebbe condurre colui che trova un modo per sopravvivere a condividerlo con i compagni, lo istighi al contrario a tenerselo ben stretto, per salvaguardare in primo luogo sé stesso; è così che “la legge iniqua ‘a chi ha sarà dato, a chi non ha, a quello sarà tolto’ torna apertamente in vigore ed è riconosciuta da tutti”[9].

E, esattamente come è successo nella storia fuori dal Lager, anche nell’anti-storia concentrazionaria prende forma uno “spietato processo di selezione naturale”[10] che porta alla sopravvivenza non del più umano, o del più civile, o del più colto, ma del più astuto, di colui che è capace di pensare solo a se stesso e di lasciare indietro gli altri. Anche questo paragone con la teoria darwiniana, tuttavia, rivela un’ulteriore asimmetria, poiché – nella prospettiva di Levi – viene a mancare la componente fondamentale della legge della sopravvivenza del più forte: dentro Auschwitz, infatti,  a nessuno è concesso di tramandare il proprio genotipo vincente nella lotta per l’adattamento, ma tutti sono potenzialmente destinati all’estinzione, soggetti alla brutale cecità della Fortuna.

Anche se l’anti-mondo di Auschwitz esercita una fortissima pressione psicologica sugli uomini che lo abitano, per i quali risulta praticamente impossibile sopravvivere ad esso senza smarrirvi (intenzionalmente o meno) la propria umanità, tuttavia qua e là Levi riesce a trovare degli antidoti. Un primo passo per evitare questo doloroso epilogo consiste nel ritagliarsi ogni giorno dei momenti di quotidianità, che permettano di recuperare la propria natura umana, impedendo al Lager di soffocare le singole individualità. Nell’esperienza di Levi, il ripetersi di queste piccole tregue è reso possibile dal fatto di avere – come lui dice per ‘sfacciata fortuna’ –un posto di lavoro nel laboratorio chimico della Buna. La scienza ha però indiscutibilmente salvato Levi non solo come prigioniero, ma anche come reduce: una volta tornato dalla Polonia, infatti, due erano le principali difficoltà che affliggevano lo scrittore: da un lato egli sentiva il bisogno di reinserirsi nella società, traguardo raggiunto soprattutto grazie al lavoro alla Siva, dall’altro lo opprimeva la necessità di riaffrontare il trauma individuale e collettivo che aveva vissuto per cercare di capirlo, trasmetterlo agli altri e forse elaborarlo. La risposta che Levi trova a questa esigenza è sicuramente la scrittura, che gli permette di raccontare e analizzare tutte le sue esperienze e che, quindi, assume un importantissimo ruolo terapeutico.

Tuttavia, la speranza di riuscire a superare Auschwitz rimane, appunto, solo una speranza, come ci dimostra il fatto che in quasi tutte le opere dello scrittore (compresi i racconti fantascientifici) siano presenti riflessioni che – in un modo o nell’altro – sono riconducibili a quelle fatte a proposito dell’esperienza concentrazionaria. Il Lager può essere assimilato ad un buco nero, che esercita su Levi una forza attrattiva decine di volte superiore rispetto a quella del magnete scientifico-letterario e che vede nel 26 febbraio 1944, data del suo internamento, il suo “orizzonte degli eventi”, cioè il punto di non ritorno, dopo il quale la vita di Levi cambia radicalmente e irreversibilmente. A questo punto si rende di nuovo necessario citare la chiralità, dal momento che esiste un’inconciliabile asimmetria, quasi un chiasmo, tra il buco nero e il campo di sterminio: mentre del primo conosciamo tutto sulla sua origine ma non sappiamo né cosa ci sia al suo interno né dove porti, Levi conosce esattamente gli orrori a cui l’uomo è stato condotto attraverso Auschwitz, anche se non riesce a rintracciare l’origine di tutta la violenza inutile e ingiustificata che vi ha trovato.

Un perfetto asse di simmetria si può invece trovare tra ciò che il 26 febbraio 1944 ha rappresentato per Levi e ciò che il 6 e il 9 agosto 1945 hanno rappresentato per l’umanità. Il paragone tra campo di sterminio e bomba atomica non è certo nuovo, ma risulta particolarmente valido se considerato sotto tre diversi punti di vista, ognuno corrispondente ad un determinato grado di profondità. Il primo livello dell’analogia, ovvero il più ‘superficiale’, è quello che vede coinvolta la riflessione etica riguardante il ruolo che la scienza svolge nella società, in particolare in tempo di guerra, in cui la scienza subisce la metamorfosi da strumento di progresso a mezzo di distruzione. Anche se già a partire dal primo conflitto mondiale compaiono sulla scena bellica nuove tecnologie di morte, per esempio il gas nervino, queste sono ancora lontane dall’essere delle vere e proprie forme di annientamento come furono, durante la Seconda Guerra Mondiale, il campo di sterminio e la bomba nucleare, nella cui realizzazione la scienza ha raggiunto – almeno per ora – il picco massimo del suo potenziale distruttivo. Analizzando con attenzione le due vicende, si nota immediatamente come entrambe siano legate a traguardi potenzialmente fondamentali della storia umana: nella prima è possibile osservare quello che è – per riprendere l’espressione utilizzata da Levi – il più grande esperimento sociale mai messo in pratica, alla base della seconda si trova invece il successo dell’uomo nel riprodurre il processo di fissione nucleare che lo ha portato ad imbrigliare il potere dell’energia atomica.

Il secondo livello di profondità si riferisce invece agli effetti a lungo termine: esattamente come l’inquinamento radioattivo causato dalle esplosioni atomiche ha provocato anche a distanza di decenni la morte di decine di migliaia di persone, la devastante esperienza del Lager ha oppresso Levi per tutta la sua vita, tornando ripetutamente a travolgerlo come una valanga e influenzando profondamente la sua scrittura e la sua filosofia, ma ha anche determinato il diffondersi di quello che Levi chiama il contagio del male, che come una sorta di pestilenza radioattiva ha perseguitato per decenni i deportati sopravvissuti, inducendoli in molti casi al suicidio.

Il terzo punto di contatto tra Auschwitz e il lancio delle due bombe atomiche – che devono essere considerati ciascuno nella sua singolarità, dal momento che la seconda bomba venne sganciata in piena consapevolezza dei suoi effetti devastanti – sta nel fatto che essi costituiscono uno spartiacque nella storia dell’umanità: in queste tre occasioni l’uomo si è infatti trovato al limite di ciò che era umano e ha consapevolmente scelto di valicare questo confine; abbandonando la consapevolezza di appartenere alla stessa specie, ha aperto un’irreparabile crepa all’interno di una comunità umana già fragile ontologicamente. Tale immagine diventa ancora più nitida se si tiene presente in che cosa consista la reazione da cui la stessa esplosione atomica ha origine: la fissione nucleare è infatti un processo di scissione, che fonda le sue premesse nell’instabilità dei nuclei atomici più pesanti, che decadono spaccandosi in due nuclei di elementi con numero atomico inferiore. Il rapporto causa-effetto che a livello microscopico porta alla reazione nucleare trova un’esatta corrispondenza – a livello macroscopico – nella frattura che la bomba atomica ha generato nell’umanità e per analogia dall’esperienza del Lager nella storia e nella memoria umana.

Quest’ultimo ha causato una cesura ancora più netta tra il sentimento di umanità e gli uomini, che non solo vi hanno rinunciato spontaneamente, ma hanno anche costretto altri a fare lo stesso, spezzando, come dice lo stesso Levi, “la capacità di resistenza degli avversari”[11]. Dentro Auschwitz, infatti, era praticamente impossibile trovare un uomo che fosse davvero tale, poiché da un lato c’era la disumanità della violenza delle guardie, dall’altro quella dei prigionieri che non potevano essere considerati nulla di più per non intralciare il meccanismo delle uccisioni di massa:

Nel cantiere il Kapò novellino di una squadra costituita in prevalenza di italiani, francesi e greci non s’era accorto che alle sue spalle si era avvicinato uno dei più temuti sorvegliante delle SS […]. Nel suo turbamento, aveva proprio detto ‘zweiundvierzing Männer’, ‘uomini’. Il milite lo corresse con un tono burbero e paterno: non si dice così, si dice ‘zweiundvierzing Häftlinge’, ‘quarantadue prigionieri’[12].

Una volta entrato ad Auschwitz, una delle prime cose di cui Levi si rese conto fu la dissoluzione del confine netto tra il ‘noi’ e il ‘loro’, tra ‘i deportati’ e ‘i carcerieri’, poiché il primo pronome veniva sostituito dall’’io, il cui unico obiettivo era la sopravvivenza, ottenuta talvolta anche compiendo violenza sugli altri prigionieri. Questa riflessione riprende e amplia quella già presente nella prima opera dello scrittore, secondo cui “esistono tra gli uomini due categorie ben distinte: i salvati e i sommersi. Altre coppie di contrari (i buoni e i cattivi, i savi e gli stolti, i vili e i coraggiosi, i disgraziati e i fortunati) sono assai meno nette”[13]. Si tratta della ‘zona grigia’, un luogo in cui l’uomo appare (o diventa) moralmente ‘ibrido’ agli occhi di chiunque cercasse di individuare delle categorie di classificazione.

I fisici di inizio ‘900 scoprirono che per descrivere il funzionamento delle micro-particelle non si potevano utilizzare i modelli della fisica classica con cui si potevano spiegare i fenomeni macroscopici: per esemplificare questa incompatibilità il fisico austriaco Erwin Schrödinger formulò il paradosso del gatto chiuso in una sorta di trappola mortale, di cui non sarebbe possibile stabilire la condizione di vita o di morte attraverso i modelli della fisica newtoniana, ma solo con quelli della fisica quantistica.

Analogamente Levi, chiuso nell’universo concentrazionario, si rende amaramente conto che al suo interno le categorie etiche del mondo di fuori non si possono applicare al mondo di dentro: non si può infatti, là dove la lotta per la vita è misura di tutte le cose, distinguere i buoni dai cattivi, i furbi dagli stolti: forse l’unica coppia di opposti discernibili è quella formata da sommersi e salvati.

L’ultima metafora che vorremmo associare a Levi è quella che emerge dal suo invito a non desistere mai dal cercare di capire e a non generalizzare: analogamente a uno scienziato, anche se è difficilissimo e arduo, chi è sopravvissuto ha il dovere di rendere testimonianza il più possibile chiara, pur nella consapevolezza del margine di errore, di ciò che è stato.

Come e proprio in quanto scienziato, Levi sa infatti benissimo che ciò che è accaduto una volta può ripetersi ancora: per questo motivo egli ritiene vitale rendere il più possibile precisa la descrizione di Auschwitz, così che osservandola nel dettaglio gli uomini possano cercare di evitare che esso si ripeta di nuovo.


[1] P. Levi, Lo scrittore non scrittore, in L’asimmetria e la vita. Articoli e saggi 1955-1987, cit. p. 149

[2] P. Levi, I sommersi e i salvati, in Se questo è un uomo, cit. p. 83

[3] P. Levi, Ex-chimico, in L’altrui mestiere, cit. p. 13

[4] P. Levi-T. Regge, in Primo Levi e Tullio Regge, cit. pp. 60-61

[5]  P. Levi, Comunicare, in I sommersi e i salvati, cit. p. 71

[6] P. Levi, L’asimmetria e la vita, cit.

[7] P. Levi, Comunicare, in I sommersi e i salvati, cit. p. 75

[8] P. Levi, I sommersi e i salvati, in Se questo è un uomo, cit. p. 84

[9] P. Levi, I sommersi e i salvati, in Se questo è un uomo, cit. p. 85

[10] P. Levi, ibid.

[11]

[12]  P. Levi, Comunicare, in I sommersi e i salvati, cit. p. 70

[13] P. Levi, Zona grigia, in I sommersi e i salvati, cit. p. 26

La virtù della chiarezza

(a cura di Pietro Boselli)

            Nell’articolo Dello scrivere oscuro[1], comparso su “La Stampa” nel 1976, Primo Levi delinea il profilo di quella che, dal suo punto di vista, dovrebbe essere la figura dello scrittore. Egli, per prima cosa, non dovrebbe mai dimenticare che il fine ultimo a cui la sua pratica tende è la comunicazione. Colui che scrive deve, quindi, fare il possibile per poter essere compreso dal suo ‘lettore ideale’.

È – per Levi – una questione di correttezza, di rispetto; si tratta di una regola implicita a cui gli scrittori devono attenersi, e chi la trasgredisce, chi scrive oscuro, pecca secondo Levi di ‘inadempienza contrattuale’. La necessità di farsi comprendere appare dunque come un dovere etico, e a tale dovere è in effetti riconducibile la ricerca di chiarezza che caratterizza la lingua utilizzata da Levi in tutte le sue opere, anche se è necessario precisare che l’amore per la chiarezza è perseguito parallelamente alla volontà di non cadere nella facile semplificazione della realtà.

            Secondo Levi risulta pericolosamente inadempiente chi usa ‘il linguaggio del cuore’, quello non mediato dalla razionalità, che a ben vedere, in quanto soggettivo, “non è un linguaggio affatto, o al più un vernacolo, un argot, se non un’invenzione individuale”[2]. Mi sembra particolarmente degno di nota un altro epiteto, quello di ‘mugolio animale’, che Levi attribuisce – sempre nello stesso articolo – a questo particolare tipo di non-linguaggio. L’interesse sta, a mio parere, nell’accostamento di un’immagine animale alle condizioni di incomunicabilità linguistica, stilema questo che è pressoché onnipresente nell’opera dello scrittore, e ritorna con particolare frequenza nella narrazione e riflessione riguardo all’esperienza della deportazione.

            Il primo e fondamentale motivo di importanza del linguaggio per Levi sta nel fatto che esso è prerogativa unica dell’essere umano, poiché “tutte le razze umane parlano; nessuna specie non umana sa parlare”[3]. Di conseguenza, laddove la comunicazione verbale viene meno, come accade nel Lager, l’uomo non può che andare incontro alla perdita della propria umanità. In Se questo è un uomo e ne I sommersi e i salvati Levi descrive con insistenza l’uso da parte dei nazisti di pratiche volte in questa direzione, con la duplice funzione di commettere un’offesa e di rendere più semplice l’esercizio della violenza sui prigionieri, ridotti ai loro occhi e a sé stessi alla condizione di animali.

Con chi non li capiva, i neri reagivano in un modo che ci stupì e spaventò: l’ordine, che era stato pronunciato con la voce tranquilla di chi sa che verrà obbedito, veniva ripetuto identico con voce alta e rabbiosa, poi urlato a squarciagola, come si farebbe con un sordo, o meglio con un animale domestico, più sensibile al tono che al messaggio [4].

            Anche la parola che riesce a sopravvivere, privata del suo significato, si riduce a mero significante. Questa ‘morte del linguaggio’ interessa non solo i rapporti tra carcerieri e prigionieri, ma anche i rapporti tra gli stessi deportati, poiché essi provengono da diverse zone d’Europa e parlano molte lingue, spesso assai diverse tra loro. L’isolamento dell’individuo internato ad Auschwitz si configura quindi come radicale, in quanto implica non solo una separazione con la realtà esterna al campo, ma anche con la maggior parte degli uomini in esso presenti.

            Sempre ne I sommersi e i salvati Levi scrive a proposito della comunicazione:

Come avviene per la salute, solo chi la perde si accorge di quanto valga. Ma non ne soffre solo a livello individuale: nei paesi e nelle epoche in cui la comunicazione è impedita, appassiscono presto tutte le altre libertà; muore per inedia la discussione, dilaga l’ignoranza delle opinioni altrui, trionfano le opinioni imposte. [5]

Questo passo è utile per ricondurre il discorso ad un orizzonte più ampio, ad una dimensione che si estende al di fuori delle recinzioni del campo: del resto, lo stesso Levi definisce Auschwitz come un imponente esperimento sociale, che può, pur nella sua incommensurabilità con i nostri comuni riferimenti, ricordarci e insegnarci qualcosa su aspetti della società in cui viviamo ordinariamente. Nel caso specifico, il riferimento è alle conseguenze disastrose che possono seguire la mancanza, la trascuratezza involontaria o volontaria nella comunicazione. Non meno pericolosa, infatti, è la distorsione della lingua, che secondo alcuni autori costituì un’importante premessa per il diffondersi del nazismo in Germania nel primo dopoguerra: tra le opere a questo proposito va considerata come fondamentale LTI, la lingua del Terzo Reich, citato anche dallo stesso Levi nel capitolo Comunicare de I sommersi e i salvati: si tratta – come recita la copertina – del ‘taccuino di un filologo’ tedesco di origine ebrea, Victor Klemperer, che negli anni del regime nazista ha osservato e annotato gli abusi compiuti sulla lingua tedesca dalla propaganda nazista.

            Il principale meccanismo nocivo è individuato dal filologo nella ripetizione:

Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico. Se per qualche tempo sufficientemente lungo al posto di eroico e virtuoso si dice ‘fanatico’, alla fine si crederà veramente che un fanatico sia un eroe pieno di virtù e che non possa esserci un eroe senza fanatismo.[6]

La ripetizione di lemmi utilizzati impropriamente appare in grado di veicolare, attraverso la sovrapposizione tra il significato pregresso e quello attribuito dal nuovo contesto, messaggi che a lungo andare vengono inconsciamente accolti, assumendo la capacità di influenzare subdolamente il pensiero e il sentire dei soggetti.

            Questo pericolo non è affatto limitato alla sfera del potere: posto che è noto il modo in cui anche nella politica moderna si abusi di parole come ‘libertà’ o ‘popolo’, vocabolo curiosamente amato, come sottolinea Klemperer, anche dai nazisti, le parole sono a rischio ogni volta che vengono utilizzate in un contesto improprio. Di questo argomento tratta il saggio I nomi dello sterminio[7], in cui l’autrice ripercorre l’evoluzione del significato attribuito al termine ‘Olocausto’ per indicare lo sterminio degli ebrei: gli usi impropri che sono stati fatti di questo sostantivo in ambito televisivo, giornalistico, politico, hanno di riflesso agito sulla percezione comune che si ha dell’Evento: ‘degradazione’, ‘banalizzazione’, ‘speculazione politica’ sono solo alcune delle dinamiche che – secondo l’autrice – tale termine ha subito nel corso del tempo.

            La dimensione della comunicazione assume allora un valore fondante all’interno della società umana; Levi, con la sua proposta di scrittura, offre, oltre che un modello linguistico, un modello etico di straordinaria forza, che dovrebbe contrastare la tendenza generale alla “pigrizia mentale”[8] e a ogni cedimento emotivo e irrazionale, il quale, anche nell’intento di fare del bene (nel caso specifico, di conservare o tramandare la memoria), finisce invece per danneggiare o distruggere quel che dovrebbe essere ‘inciso’ in ogni mente umana. Pena, il disfacimento individuale e il rischio del ritorno del rimosso.


[1] P. Levi, Dello scrivere oscuro, in L’altrui mestiere, in Opere, II, cit. pp. 676-681

[2] P.Levi, ibi, p. 677

[3] P. Levi, in I sommersi e i salvati, in Opere, II, cit.

[4] Primo Levi, I Sommersi e i Salvati, cit. p. 70

[5] Primo Levi, I Sommersi e i Salvati, cit. p. 81

[6] V. Kemperer, LTI (…),

[7] A. V. Callam-Calimani, I nomi dello sterminio, Einaudi

[8] P. Levi, P. Levi, in I sommersi e i salvati, in cit. p. 1059

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I sommersi e i salvati

I sommersi e i salvati: una guida alla lettura a cura di Micol Bassi

Introduzione

Micol Bassi e Domitilla Leali donano la voce alle parole di Primo Levi con cui lo scrittore introduce la sua ultima opera dedicata alla Shoah, pubblicata nel 1986.

Capitolo primo: La memoria dell’offesa

Laura Casartelli dona la voce alle parole di Primo Levi; il primo capitolo si concentra sulla riflessione in merito alle virtù e alle mancanze della memoria, in particolare di quella della deportazione e dello sterminio nazista.

Capitolo secondo: La zona grigia

Dona la voce a questo capitolo Matilde Roda; in questa parte del suo saggio Primo Levi elabora il concetto di zona grigia per spiegare le complesse relazioni all’interno di quell’universo a sé stante che è l’universo concentrazionario.

Capitolo terzo: La vergogna

In questo capitolo l’autore si concentra sul problema morale della minoranza che si è salvata dai campi di sterminio, descrivendo il loro tormento e il senso di colpa derivanti dalla loro condizione.

Capitolo quarto: Comunicare

Dona la Voce a questo capitolo Matteo Verga. In questo capitolo l’autore analizza con occhio critico, da linguista e da filologo contemporaneamente, il problema dell’incomunicabilità nei campi di sterminio e lo sviluppo in essi del Lagerjargon (semplificazione e rielaborazione del tedesco), mettendo in evidenza le caratteristiche comuni alla comunicazione nei gulag sovietici.

Capitolo quinto: Violenza inutile

Lara Liberti legge il capitolo quinto dal saggio di Primo Levi, dedicato alle dinamiche di violenza che dominano nell’universo concentrazionario. Un tema che Levi tratta anche in forma di racconto, come nella novella Forza maggiore, contenuto nella raccolta postuma L’ultimo Natale di guerra, ma che qui viene trattato con estrema lucidità argomentativa.

Capitolo sesto: L’intellettuale ad Auschwitz

Dona la Voce a questo capitolo Eleonora Russo. Nel capitolo Levi si sofferma ad analizzare il modo in cui l’essere intellettuali abbia modificato la percezione e l’elaborazione del vissuto dentro l’universo concentrazionario.

Capitolo settimo: Stereotipi

Marta Menafra dona la voce al settimo capitolo del saggio sull’esperienza concentrazionaria di Auschwitz, narrata da Primo Levi come se si trattasse di un esperimento mentale, simile a quelli proposti da Galileo o da Einstein, secondo la definizione che ne dà Massimo Bucciantini.

Capitolo ottavo: Lettere di tedeschi

Sofia Menafra legge le pagine dedicate da Levi alla sua corrispondenza epistolare con interlocutori tedeschi, avvenuta soprattutto in seguito alla pubblicazione nella Germania Federale della traduzione in tedesco di Se questo è un uomo.

Conclusione

Martina Cotrino conclude la lettura e il commento de “I sommersi e i salvati”

Per approfondire

https://www.primolevi.it/it/sommersi-salvati

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“Il grande ritratto”

In questa speciale puntata del nostro podcast, i proff. Gianluigi Colombo, Giuseppe Di Blasi, Ermanno Vita e le proff. Laura Benatti, Laura Bianchi, Claudia Gandini, Domitilla Leali, Elisa Roncoroni e Alessandra Sciarra donano la loro voce per leggere il romanzo breve di Dino Buzzati Il grande ritratto; la lettura è parte di un più ampio percorso, che il dipartimento di italiano ha progettato in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Dino Buzzati. Al termine del percorso di lettura, le classi incontreranno Lorenzo Viganò, oggi il più autorevole studioso e curatore dell’opera di Dino Buzzati, da anni impegnato nel riordino degli archivi dello scrittore bellunese anche grazie all’aiuto di Almerina Buzzati, moglie del narratore e giornalista e nella pubblicazione di molte opere, tra cui La nera di Dino Buzzati (raccolta di articoli di cronaca nera scritti per il Corriere della Sera e per il Corriere d’informazione dal 1945 al 1971), la biografia Album Buzzati, recentemente ripubblicata, I fuorilegge della montagna. Uomini, cime, imprese, Il panettone non bastò. Scritti, racconti e fiabe natalizie e – tra le altre opere – anche le nuove edizioni de Il deserto dei Tartari, Poema a fumetti, La famosa invasione degli orsi in Sicilia.  

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“Il grande ritratto” Reading per Dino Buzzati

Oggi, 23 novembre il gruppo di lettura ad alta voce del Liceo, in formazione variabile, costituita da Lara Liberti (III CD), Laura Casartelli (IV CB), Margot Cavallini (III CD), Marta Menafra (V SA) Matilde Roda (IV CD), Sofia Menafra (II SB) hanno recitato per le classi impegnate nel “Percorso Buzzati” il reading dedicato all’autore bellunese presentato lo scorso 16 settembre in occasione di “Parolario 2022”.

Le classi impegnate nel progetto, prima di incontrare il curatore di moltissime opere buzzatiane, Lorenzo Viganò, avranno modo di leggere e discutere con i loro insegnanti il romanzo Il grande ritratto, del 1960, in cui Buzzati realizza un testo fantascientifico sul ruolo della tecnologia nella conservazione del ricordo. Per l’occasione.

Grazie alle proff. Laura Benatti, Laura Bianchi, Claudia Gandini, Domitilla Leali, Elisa Roncoroni, Alessandra Sciarra e ai proff. Gianluigi Colombo, Giuseppe Di Blasi, Ermanno Vita, che hanno donato la loro voce per la realizzazione di un audiolibro del romanzo, che a breve sarà pubblicato anche sul nostro canale Spotify.

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Il giovane Holden, capitolo VI

<<Ero maledettamente in pensiero, ecco perché. (…) Se conosceste Stradlater sareste stati in pensiero anche voi. Sono uscito un paio di volte con quel bastardo e due ragazze, e so quello che dico. Era senza scrupoli. Proprio così. >>

Holden, preoccupato per l’appuntamento di Jane con l’odiato Stradlater, aspetta il ragazzo in camera. Una volta rientrato, Stradlater si lamenta del tema che il compagno gli ha scritto e che finisce poi nel cestino della carta, mentre il protagonista cerca di recepire più informazioni possibili sull’uscita, fino a quando…

Matilde Roda dona la voce a questo episodio

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Il giovane Holden, capitolo V

“Dopo che se n’era andato, mi misi il pigiama, la vestaglia e il mio vecchio berretto da cacciatore e cominciai a fare il tema. Il guaio era che non mi riusciva di pensare né a una stanza né a una casa né a niente da descrivere, come mi aveva detto di fare Stradlater. Non è che descrivere le stanze e le case mi mandi in estasi, comunque. Sicché andò a finire che feci il tema sul guantone da baseball di mio fratello Allie.”

Holden, dopo una serata passata al cinema tra hamburger e biliardino automatico con Brossard e Ackley, pone fine all’ozio e si dedica alla stesura del tema descrittivo assegnatogli da Stradlater. 

Non sapendo cosa descrivere, decide di concentrarsi sul guantone da baseball del fratello Alley, che riporta alla memoria….

Laura Casartelli, Matilde Roda e Marta Menafra donano la voce a queste toccanti parole.

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Il Giovane Holden, capitolo IV

“Io e lei giocavamo sempre a dama.

Giocavate sempre a cosa?

A dama.

A dama, Cristo!

Eh, sì. E lei le sue dame non le muoveva mai. Quando faceva una dama, non la muoveva, la lasciava nella fila dietro. Se le teneva tutte schierate in ultima fila. Mai una volta che le usasse. Le piaceva vedersele lì tutte in fila.”

Tra il caldo mortale e le finestre appannate del bagno della Pencey incontriamo uno Stradlater impegnato a farsi la barba canticchiando malamente una canzone del tempo e un Holden, forse un po’ irritato, forse un po’ annoiato, costretto a cedere alla richiesta dell’amico di preparare per lui un compito di inglese. Poi, una scintilla. La nuova fiamma di Stradlater sembra essere proprio quella Jane che Holden ricorda tanto teneramente: il golf, l’estate, l’ambiguo comportamento del compagno della madre, le dame; quelle dame schierate sempre in ultima fila e mai utilizzate; un ricordo tanto vivo e sentito che permette a Holden di concedersi forse un poco di nostalgia e sensibilità. Incombono però l’appuntamento di Stradlater, il tema di inglese, l’arrivo di Ackley…

Giulia Gelain e Micol Bassi donano la voce a Holden e Stradlater

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Proposte di lettura a.s. 2021-2022

Durante l’incontro del 7 aprile, ciascuno dei componenti e delle componenti del gruppo di lettura ha proposto un libro da leggere insieme e registrarne l’audiolibro. Queste sono le idee che sono venute fuori nell’ultimo incontro!

Domitilla Leali, Medea di Christa Wolf

L’autrice, vissuta nella Repubblica Democratica Tedesca (DDR), dedica alcune sue opere a eroine del mondo classico, in particolare a Cassandra e a Medea, raccontando il loro mito secondo una nuova prospettiva.  Medea si presenta come un libro particolarmente interessante per il contenuto e adatto alla lettura per la sua forma: è infatti articolato in più capitoli, ciascuno dei quali esprime il pensiero di uno dei personaggi protagonisti della vicenda (Medea, Giasone, Glauce, la nutrice,…), dalla cui coralità chi legge può ricostruire una versione del mito differente da quello consacrato da Euripide, che vede in Medea, folle d’amore, arrivare ad uccidere i suoi filgi pur di vendicarsi dell’offesa subita da parte di Giasone, che la ha abbandonata per sposare la figlia del re di Corinto e diventare così re della città. Medea, nella versione della Wolf, non uccide i suoi figli, che ama teneramente: i ragazzi sono invece uccisi dagli abitanti di Corinto, che con questo atto scellerato mettono in atto una strategia deliberata per far ricadere la colpa sulla donna, isolarla e condannarla a una solitudine ancora più radicale di quella in cui l’hanno rinchiusa fino a quel momento: isolata perché donna, perché straniera, perché ‘altra’. In questo sta la grandezza di questa rilettura di un grande classico, che costituisce un’interessante occasione di lettura coralmente condivisa. 

Matilde Roda, Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini

“Conversazione in Sicilia”, pubblicato nel 1941, è un romanzo antifascista, e per questo il linguaggio utilizzato è cifrato, oscuro e simbolico. Il protagonista è Silvestro, un uomo di circa 30 anni che abita a Milano e che si definisce “in preda ad astratti furori”. Egli, in seguito a una lettera del padre, decide di andare a trovare la madre Concezione, la quale abita in un paesino chiamato Neve in Sicilia. Durante questo viaggio e durante il periodo passato con la madre, Silvestro incontra i personaggi più disparati e, osservandoli e parlando con loro, riscopre se stesso e la Sicilia, terra povera e a tratti oscura. Allo stesso tempo Elio Vittorini ci mostra gli effetti e le contraddizioni del regime fascista. 

Camilla Caldarelli, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore di Luis Sepulveda

Il romanzo, pubblicato nel 1989, narra la vecchiaia di Antonio José Bolivar Proano, passata in una capanna sulla riva del grande fiume insieme alla fotografia sbiadita di sua moglie e ai ricordi della sua vita passata di colono bianco ai margini della foresta amazzonica ecuadoriana. Antonio decide di vivere in sintonia con i ritmi della natura e nel rispetto delle creature che la popolano. Inoltre, sarà proprio il protagonista colui che porterà a termine il compito spiacevole di uccidere il tigrillo, il felino che vendica su qualsiasi uomo il dolore per l’uccisione dei suoi cuccioli. Lo scontro tra l’uomo e l’animale, tra la vita e la morte, si carica di un significato simbolico: il felino diventa emblema del senso di colpa collettivo che tormenta le coscienze di coloro che si trovano davanti alla natura ferita. In questa dinamica di denuncia, però, risalta la natura speranzosa di Bolívar che sogna nel momento in cui legge i suoi adorati romanzi d’amore.

Elisabetta Bianchi, Io e te di Niccolò Ammaniti

Io e te, pubblicato nell’ottobre 2010, è un romanzo di formazione che racconta la storia di un ragazzo che si sente diverso da tutti i suoi compagni e amici, ma non ha il coraggio di dirlo perché ha l’idea che se dovesse capitare, diventerebbe realtà. Per mascherare la sua “diversità” dice alla madre di essere stato invitato a fare la settimana bianca con i suoi compagni di scuola quando in realtà passerà la sua vacanza nella cantina di casa sua senza che nessuno lo sappia, ma a metà della settimana, quando sembrava tutto andare per il verso giusto, una ragazza si presenterà in cantina da Lorenzo e qui dovrà iniziare ad affrontare diverse complicanze per poi scoprire una cosa che gli cambierà la vita.

Laura Casartelli, Dio di Illusioni di Donna Tartt

Dio di illusioni è stato pubblicato nel 1992, nel periodo in cui la scrittrice, Donna Tartt, frequentava l’università di Bennington nel Vermont, da cui prende ispirazione per l’ambientazione del suo primo romanzo. All’Hampden College, una prestigiosa università del Vermont, Richard, Henry, Francis, Bunny, Charles e Camilla fanno parte di una vera e propria élite, poiché sono gli unici a seguire le lezioni di Julian Morrow, eccentrico professore di greco antico che insegna al di fuori delle regole accademiche imposte dall’università e solamente a una cerchia ristretta di studenti. Il piccolo gruppo passa le giornate tra alcol, cene di lusso, sostanze stupefacenti, compiti di greco, feste, fine settimana in campagna e giochi pericolosi, fino a quando non succede qualcosa di terribile, che verrà celato con un crimine ancora più spietato…

Micol Bassi, Le lacrime di Nietzsche di Irvin D. Yalom 

Nella Vienna ottocentesca fin de siècle si incontrano, secondo un piano dapprima magistralmente architettato, un medico ebreo e un pensatore divorato da una sofferenza estrema, che prende le forme talvolta di emicrania, talvolta di parziale cecità, altre volte ancora di febbre e nausea. Ogni visita diviene una interminabile partita di scacchi, nella quale a sfidarsi sono i tentativi, da parte del dottor Josef Breuer, di scavare a fondo nell’animo del paziente, per estrapolarne una diagnosi, puntualmente confutati dalle mosse di un Friedrich Nietzsche sempre più chiuso e restio a raccontarsi. Eppure, è proprio questa nuova forma di cura che, a dispetto di ogni premessa, da questi due uomini, solo in apparenza tanto diversi, viene scoperta, affinata e perseguita nel corso del romanzo: il racconto di sé e il dialogo; guardarsi dentro e descrivere a qualcuno di esterno quanto vi si scorge. Allora, ecco che Nietzsche non è più solo paziente né Breuer solo medico: viene a instaurarsi un rapporto tanto profondo in cui l’uno cerca nell’altro qualcosa che possa salvarlo; magari anche solo una parola. “Caro amico” sarà l’ultimo appellativo che Breuer rivolgerà a Nietzsche e sarà proprio questa denominazione, insieme tanto sofferta e tanto rincorsa, a liberare finalmente le lacrime del filosofo. Perché raccontarsi in questo modo, rivelarsi, cioè, in tutta la propria disperazione e solitudine, comporta, eccome, del dolore, ma sa anche rendersi prerogativa necessaria per lasciarsi toccare, lasciarsi curare e darsi la possibilità di scegliere e amare il proprio cammino.

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La mite

Questo passo mi ha colpito dal primo momento in cui l’ho letto. A mio parere, rappresenta la volontà di essere capito e compreso, ma senza la necessità di spiegarsi.

C’è un urgenza da parte dell’autore di far intendere la sua vera natura, la quale però non trova le parole adatte per esprimersi e quindi preferisce rimanere inespressa, taciuta, ma con la speranza di non essere fraintesa. Il silenzio a volte, però, se protratto troppo a lungo, viene colmato con le parole degli altri; sono queste, false e talvolta meschine, che fanno rivoltare e disperare l’uomo, che ancora una volta, nonostante questo, si richiude in sè stesso, sfogando la sua rabbia nella mente e pronunciando parole silenziose che rimangono confinate a sé stesse.

Tutti nella vita ci troviamo ad essere miti, a non riuscire a spiegare come vorremmo ciò che pensiamo e questo crea frustrazione, che ci porta ad additare la colpa a chi i nostri silenzi non riesce a comprenderli e a decifrarli, vorremmo che tirassero a indovinare senza sbagliare, ma questo non è altro che una copertura che utilizziamo per nascondere le nostre ferite.

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I nottambuli, Edward Hopper

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Uno, nessuno e centomila

Con soltanto questo breve passo Pirandello riesce a farci avere un’illuminazione. Riesce a metterci di fronte a una verità di cui probabilmente eravamo sempre stati perfettamente consapevoli ma che avevamo tenuto sopita al fine di non impazzire. Il bello è che si tratta di un concetto tutto sommato molto divertente su cui ragionare: l’immagine che noi abbiamo di noi stessi è differente da quella che gli altri hanno di noi, pertanto anche il modo che noi abbiamo di vedere gli altri è differente da quello in cui loro percepiscono sé stessi.

In queste poche righe si racchiude il nocciolo della questione eterna della domanda sull’identità. Su che cosa si fonda? Come viene definita? La risposta che sembra dare l’autore è, pare, che l’identità non esista. Quindi in un volume dal tono abbastanza leggero si arriva a parlare di argomenti filosofici che in realtà non potranno mai trovare una risposta univoca, come anche la questione dell’inconsistenza delle parole.

In questo, ossia nella leggerezza e allo stesso tempo il grottesco con cui si scivola nella filosofia, sta la bellezza di Uno, nessuno e centomila.

@mariachiaratomasicchio

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Kafka sulla spiaggia

Questo passo è tratto dal romanzo Kafka sulla spiaggia di Haruki Murakami, nel quale viene narrata la storia di Tamura Kafka, un ragazzino che il giorno del suo quindicesimo compleanno scappa di casa, e quella di Nakata, un sessantenne che ha perso la memoria e  parla con i gatti. Le due storie si intrecceranno, e infatti, grazie all’incontro tra i due, tutte le cose torneranno al loro posto. 

Ho scelto questo passo poiché a volte capita di provare paura davanti alle difficoltà, questo in alcuni casi porta all’isolamento, che spesso causa uno stato di immobilità, che, però, invece di aiutarci nell’ affrontare la realtà, peggiora solo la situazione. Bisognerebbe avere la forza di reagire davanti alle proprie difficoltà senza chiudersi in se stessi, rischiando di  sprofondare in una dimensione in cui non si riesca più a uscire. 

Questo non succede solo con i nostri problemi ma anche con quelli degli altri, molte volte capita che davanti al grido di aiuto di qualcuno ci si giri dall’altra parte facendo finta di non sentire, abbandonando gli altri ai loro problemi ignorando le loro difficoltà. 

In questi casi l’unica soluzione è proprio aprire gli occhi.

@martamenafra

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Discorso di Patch Adams agli studenti

Questo testo, che è un estratto dal discorso di Patch Adams ai suoi studenti nell’omonimo film, ho voluto raccontarlo perché rappresenta molto l’atteggiamento che si deve avere quando si studia quello che si vuole fare nella vita: non bisogna mai cercare solo la soddisfazione del buon voto, ma bisogna anche essere curiosi, vivere quello che si sta facendo con stupore e non smettere mai di imparare. In questo caso si sta parlando di medici, e quindi è anche utile collegarlo agli ultimi due anni di pandemia, dove i medici e gli infermieri hanno combattuto e fatto tutto il possibile per fare il proprio lavoro e salvare miliardi di vite, mentre eravamo “nella tempesta”, in un momento drammatico per tutti noi. Ci insegna anche a credere nel migliorare sé stessi e migliorare la qualità della vita in quello che si sta facendo, perché la scienza ci aiuta a guardare il mondo con uno sguardo sempre nuovo, nutrendosi delle proprie esperienze e facendo tesoro di quello che si impara, potendo così applicarlo per dare un contributo al benessere di tutti.

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Sostiene Pereira

Il passo scelto è tratto dal romanzo di Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira”, edito da Feltrinelli nel 1994.

Il libro è ambientato a Lisbona nel 1938 e ha come protagonista Pereira, un giornalista con una lunga carriera nella cronaca nera. Al tempo della narrazione, egli lavora alla pagina culturale del Lisboa, un giornale pomeridiano di recente fondazione.

Pereira è un uomo abitudinario, malato di cuore, pingue, privo di ambizioni e ossessionato dalla morte. Nel corso del romanzo, però, il giornalista prende coraggio e sconvolge la sua esistenza passiva e monotona. In particolare, il brano selezionato descrive un momento della giornata passato da Pereira alle terme di Buçaco. Queste righe sono significative della grande capacità di caratterizzazione dei personaggi di Tabucchi. Infatti, dalla descrizione accurata e ricca di particolari delle situazioni in cui Pereira si trova, si esplicitano le sfumature del suo carattere e il suo modo di pensare.

From Wikimedia Commons, the free media repository, autore: Concierge.2C

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La giustizia

Il testo è tratto dal romanzo storico Il rogo della Repubblica di Andrea Molesini pubblicato nel 2021 da Sellerio editore. Protagonista del libro è Boris da Candia, un esploratore per conto della Repubblica di Venezia che sta indagando sulla presunta scomparsa di un piccolo mendicante e sulla conseguente condanna di tre ebrei, i quali avrebbero torturato e ucciso il bambino per poi impastare con il suo sangue le focaccine pasquali. 

Dall’interno della gabbia in cui è incatenato e che lo sta portando a un secondo processo, nel quale però non gli potrà essere evitata la morte, l’archisinagogo Servadio parla a Boris. Non è arrabbiato, e anzi la sua voce è lenta e chiara, ma il suo messaggio è perentorio e duro: non c’è giustizia nella sua condanna. 

Del resto, tra giustizia e forza non potrà mai esserci nessuna corrispondenza: la prima è leggera e libera come una farfalla, mentre la seconda è come una spada rigida e dura e queste due nature così diverse non possono andare d’accordo, come invece all’uomo piace credere. 

“Il veliero con farfalle”, Salvador Dalì
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Ferrari Rex

Questo passo è tratto da Ferrari Rex: Biografia di un grande italiano del Novecento, di Luca Dal Monte (2016), un libro, frutto di quasi un decennio di documentazione da parte dell’autore, che racconta in modo dettagliato i novant’anni di vita e le “gioie terribili” di Enzo Ferrari, pilota automobilistico, imprenditore e fondatore dell’omonima Scuderia.

Virginia Woolf disse che <<Dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna>>, e dietro Enzo Ferrari c’è sempre stata Laura Dominica Garello. 

I due si conobbero a Torino nel 1921 e convolarono a nozze il 28 aprile 1923; rimasero insieme per quasi sessant’anni e dal loro amore nacque Dino, figlio tanto amato, che morì prematuramente a causa della distrofia di Duchenne. 

Il loro fu un amore travagliato, a tratti anche malato, a causa dell’infedeltà di Enzo, che intraprese una relazione segreta con un’altra donna, da cui ebbe anche un figlio. 

Secondo molti, e anche secondo Enzo, lui e Laura non si sarebbero mai dovuti sposare: avevano preso questa decisione da ragazzi, quando erano troppo giovani e incoscienti, non avevano un carattere complementare ed erano costantemente in guerra tra di loro, ma, nonostante le tensioni e le avversità, le loro strade non si divisero mai, rimasero sempre l’uno la spalla dell’altra, fino all’ultimo respiro di Laura. 

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L’eleganza del riccio, o Il movimento di una Rosa

Paloma Josse ha dodici anni e mezzo e, di tanto in tanto, ama annotare su un diario quelli che lei stessa ha denominato “movimenti del mondo”. Si tratta dei corpi e degli oggetti; degli artifici della materia, nella loro etimologia più autentica; di qualcosa che sia incarnato, tangibile, bello ed estetico; e di qualcosa che si possa toccare, assaporare, sentire sulla pelle. Ecco, un bocciolo di rosa cade dal suo stelo e si posa sul tavolo: Paloma ne ascolta il suono e ne osserva il delicato dispiegarsi. Viene a crearsi, in modo quasi inaspettato e impercettibile, un istante capace di restituire il senso ultimo del tempo, della fragilità, della creazione; sì, anche della Bellezza. Nella tanto impetuosa quanto necessaria corsa verso il realizzare qualcosa o il divenire qualcuno, questo petalo ribelle porta il sapore delicato della mattina a Parigi e della colazione, l’invito audace a fermarsi e ammirare. Paloma vuole dirci che è proprio questo spazio, il rifugio privilegiato della vita vera: è necessario, allora, cogliere l’attimo poco prima che fugga, afferrare la sua pienezza assieme all’eco che già si lascia alle spalle; e forse bisogna fare tutto questo nella quotidianità delle abitudini e degli eventi, in tutto ciò che vi è di più vicino e semplice. È “poi una questione di tempo e di rose”, di equilibrio tra l’esserci e il non esserci più, sulla soglia dell’attimo e del movimento. 

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La solitudine tra luce e vento

Questo brano è tratto da Archivio dei bambini perduti” di Valeria Luiselli. Si tratta di un capitolo, composto da un’unica frase, o, se vogliamo, da tante immagini differenti separate tra loro da virgole, come un vero e proprio flusso di coscienza.

I due bambini, senza nome (vengono chiamati ‘il maschio’ e ‘la femmina’), sono perduti, come i bambini del titolo, in mezzo al nulla, senza alcun punto di riferimento. Il maschio parla con sua sorella, o forse dialoga tra sé e sé, in quel mare di luce che impedisce di pensare lucidamente, perché l’unico pensiero che picchia dietro le tempie è riferito alla fame e alla sete e alla paura. La luce inonda ogni cosa fino ad annullare il senso del concreto, fino a far dimenticare che esiste un mondo oltre la cortina di luce bianca.

Tutti, probabilmente, abbiamo provato la sensazione di svanire dentro la luce, di vedere il mondo dissolversi dietro essa, e pensare che non esistesse più niente oltre il nostro corpo. Poi, improvvisamente, riaffiora la consapevolezza del mondo materiale. Può essere piacevole se si è sdraiati in un posto sicuro, un po’ di meno in mezzo al deserto.

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Quattordicianni

Il passo scelto è tratto dal romanzo “Cose che nessuno sa” di Alessandro D’Avenia (Palermo 1977) che è racconta la storia di una ragazza, Margherita, costretta ad affrontare quelli che per un’ adolescente sono i problemi della vita. Durante questo periodo si sente perennemente intrappolata nelle sue emozioni, nei suoi pensieri e nella sua età: QUATTORDICIANNI.

Questa è la stessa sensazione che tutti gli adolescenti provano quando prendono un momento per sé stessi e si rifugiano nei loro pensieri. Si mettono sul letto e fissano il vuoto rendendosi conto che la vita che stanno vivendo non è quella che vogliono davvero e cercano un modo per migliorarla, ma rimangono sempre allo stesso punto. Si soffermano a pensare a tutte le cose che potrebbero fare, ma che mai faranno, perché non hanno il coraggio o per semplice insicurezza. Forse è proprio per la verità che trasuda dalle parole di Margherita che questo breve passo può toccare il cuore di chiunque abbia provato le stesse emozioni, come me. Ed è questo, secondo me, che la letteratura dovrebbe fare: utilizzare le parole per descrivere sensazioni a cui non sappiamo dare un nome e farci sentire un po’ meno soli.

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Capitolo terzo

Nel corso di questo capitolo Holden ci apre la porta sulla sua vita al college: qualche informazione sulla storia della Pencey, qualche riflessione sui suoi scrittori preferiti… poi arriva il ragazzo che sta nella stanza accanto alla sua, Ackley, e l’irritazione si impossessa di Holden.

Lo scambio di battute tra i personaggi è pungente, ma anche divertito, forse, in fondo in fondo, anche Holden è contento di avere un po’ di compagnia, mentre quasi tutti gli altri studenti partecipano ad una festa… All’improvviso arriva il suo compagno di stanza, Stradlater, che lo informa di essere in procinto di uscire con una ragazza. Il tono di Holden si fa di nuovo brusco…

Insomma, in questo terzo capitolo ci è permesso scoprire qualche altro aspetto del  protagonista, che sa essere anche serio e sensibile; anche se Holden è incerto su come gestire la propria vita, comprende il valore dei rapporti umani.

Valentina Colombo dona la voce a Holden Caulfield

Bianca Tettamanti dona la voce ad Ackley

Sofia Petito dona la voce a Stradlater

Accompagnamento musicale proposto

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La morte tirò per loro

Foto di Sara Zuliani

Il passo scelto è tratto dal romanzo di Margaret Mazzantini Venuto al mondo (2008), in cui viene raccontata la vita di Gemma, la protagonista, dal giorno dell’incontro con l’amore della sua vita, che avviene in Bosnia, nel 1984 a Sarajevo, e la nascita del figlio Pietro, venuto al mondo proprio durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina (1992-1995). La storia di Gemma avrà quello che possiamo definire un “lieto fine”, anche se – purtroppo – non per tutti i protagonisti del romanzo è così. La loro tragedia è raccontata anche attraverso i ricordi e le emozioni di un grande amico di Gemma, il bosniaco Gojko, figlio di Mirna e fratello maggiore di Sebina, che moriranno poco prima della fine dell’assedio della città. 

Sara Zuliani dona la voce a Gemma

Maria Chiara Tomasicchio dona la voce a Gojko 

Demetra Mattiroli dona la voce a Pietro

Matilde Testa dona la voce alla poesia di Gojko

Suggerimento di ascolto

Miss Sarajevo, testo e musica dei Passengers ( U2 e Brian Eno), accompagnati da Luciano Pavarotti

Three Letters from Sarajevo, di Goran Bregović

Suggerimenti di lettura

Joe Kubert, Fax da Sarajevo, Mondadori Comics, 1999

Fax da Sarajevo di Joe Kubert, una testimonianza della guerra in Bosnia

Z. Filipović, Diario di Zlata, Rizzoli, 1993

Sarajevo Debelo Brdo di Julian Nyča
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Capitolo secondo

《 La sua porta era aperta, ma io bussai un pochino lo stesso, tanto per far l’educato e cosí via. L’avevo anche visto, oltre tutto. Stava seduto in una grande poltrona di pelle, tutto arrotolato in quella coperta che vi ho detto prima.  Quando bussai mi guardò. – Chi è? – gridò. – Caulfield? Vieni,  figliolo -. 》


Il secondo capitolo si apre con la visita di Holden al vecchio e malato professor Spencer, che, nonostante l’età avanzata, ha suscitato nel ragazzo  un moto di simpatia, forse anche di affetto. Tuttavia, anche se durante l’incontro, il professore si mostra seriamente preoccupato per il futuro di Holden, la pena che inizialmente il ragazzo prova si trasformano pian piano in fastidio e poi in irritazione. Holden si pente di essersi recato a casa del suo insegnante e cerca di liberarsi al più presto, fantasticando dentro di sé sul suo imminente ritorno a New York…

Isabella Malatrasi dona la voce a Holden 

Samuel Cafasso dona la voce al professor Spencer

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I gufi e gli angeli

«L’universo non ha un centro,
ma per abbracciarsi si fa cosí:
ci si avvicina lentamente
eppure senza motivo apparente,
poi allargando le braccia,
si mostra il disarmo delle ali,
e infine si svanisce,
insieme,
nello spazio di carità
tra te
e l’altro».

Chandra Livia Candiani, da La bambina pugile, ovvero La precisione dell’amore, Einaudi, 2014

Skellig è il romanzo d’esordio di David Almond, edito per la prima volta in Inghilterra nel 1998. Racconta una storia curiosa: la storia di Michael, un ragazzino che, con l’aiuto di una vicina, del cibo cinese e della birra scura, dona nuova vita a un essere malridotto e singolare di nome Skellig, un uomo stanco di vivere, malato di artrite, ma dotato di ali. Non si sa chi sia né da dove venga, ma si sa che dietro un aspetto ripugnante nasconde un animo profondo e  buono, in grado di dare forza a chi lo circonda, di farlo sognare e volare con le sue ali. 

Quella di Michael e Skellig è una favola moderna, che non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno, non gioca sui colpi di scena né su antagonisti carismatici: è solo la normalissima storia di un uomo che guarisce dall’artrite e da non si sa bene quale passato con l’aiuto di alcuni amici. Il romanzo non nasconde le difficoltà della vita: la sorellina del protagonista, Mina, è malata di cuore e Skellig ha l’artrite, ma non c’è nessuno a cui dare la colpa. Del resto, la ricerca di un colpevole per qualsiasi cosa è un’azione infantile e l’autore vuole essere un maestro per i suoi lettori, che sono sì dei bambini, ma che prima o poi cresceranno e si porteranno nel cuore tante domande destinate a restare senza risposta e tante difficoltà che non potranno essere imputate a nessuno.

Non ci viene spiegato nulla di superfluo di quello che succede: sappiamo che Skellig e la sorellina di Michael sono malati e sappiamo che – alla fine – guariscono, nel corpo e nell’anima. Sappiamo che prima Michael si sente solo e poi non più. Non conosciamo il superfluo perchè non ci deve importare di null’altro che delle emozioni dei personaggi, di come essi crescano imparando ad amarsi l’un l’altro, come si impara da piccoli a camminare, o, nel caso della sorellina del protagonista, a far battere il proprio cuore.

Sono convinta che questo libro vada letto da bambini per imparare a familiarizzare con l’idea che anche dopo che si sarà cresciuti andrà bene farsi aiutare da qualcuno a rinascere, che anche da grandi sarà possibile volare e amare. Ma penso che vada letto anche da adulti, per ricordarsene e lasciarsi cullare da questa consapevolezza.

Foto della copertina del volume, di Maria Chiara Tomasicchio (libro e foto!)

Il giovane Holden; capitolo XIV

“Mi sarei buttato dalla finestra. E forse l’avrei anche fatto, fossi stato sicuro che qualcuno mi avrebbe coperto appena toccato terra. Non mi andava che un branco di cretini curiosi stesse lì a guardarmi tutto pieno di sangue.”

Holden, essendo rimasto solo in camera e non riuscendo a pregare, parla con il fratello Allie e inizia una riflessione sulla religione e sugli apostoli, fino a che…

Matilde Roda dona la voce a questo episodio. Buon ascolto!

https://open.spotify.com/episode/03x5qNfQucZ8LTeKllzKFP?si=zC259jfYQgGrdChb24fRyQ

Il giovane Holden; capitolo XIII

“Sono tornato a piedi fino all’albergo. Quarantuno meravigliosi isolati. Non l’ho fatto perché mi andava di camminare o cosa. Più che altro perché non mi andava di salire e scendere dall’ennesimo taxi. A volte ci si stanca di prendere i taxi, proprio come ci si stanca di prendere gli ascensori. Di colpo uno ha bisogno di camminare, e non importa quanta strada deve fare o quanti piani.”

Dopo una lunga camminata al freddo, della quale pure sente il bisogno, Holden rientra in albergo, dove gli viene offerto un incontro con una prostituta: con Sunny, però, vuole solo parlare, accettando comunque di darle il suo compenso…

Lara Liberti dona la voce a questo episodio. Buon ascolto!

https://open.spotify.com/episode/6IhyjOa7gu5sL2gTsPLukr?si=cJ8u1zL6SLmIonyS43PzBg

Il giovane Holden; capitolo XII

“Si è girato di nuovo indietro e mi ha detto: – I pesci. Loro non vanno da nessuna parte. Restano dove sono i pesci. In quell’accidenti di lago.

– Ma i pesci… è diverso. I pesci sono un’altra cosa. Io dicevo le anatre, – gli ho detto.

– E che c’è di diverso? Non c’è proprio niente di diverso, – fa Horwitz. Ogni cosa che diceva, la diceva da arrabbiato.

Dopo una nuova e tormentata discussione sul destino delle anatre durante l’inverno, Holden si immerge nell’atmosfera confusa del bar e della musica di Ernie: tra giovani universitari, incontra un’amica del fratello, ma ne rifiuta la compagnia, precipitandosi furioso nella notte…

Martina Cotrino dona la voce a questo episodio. Buon ascolto!

https://open.spotify.com/episode/7oemELLHKJXkMM4R1wAY9U?si=YFvcvuFbQGCiqpmgOQBSdg

Il giovane Holden; capitolo XI

“Era una buffa ragazza, la vecchia Jane. Proprio bella, a rigor di termini, direi di no. Ma mi lasciava senza fiato.”

Holden riflette sul rapporto tra lui e Jane e sui sentimenti che nutre per lei.

Laura Casartelli dona la voce a questo episodio.

https://open.spotify.com/episode/4l514UCPbwYxUIF0NtC5pi?si=aJ3HqsPHQDqjLKItHdiy_g

Il Giovane Holden; capitolo IX

« Poi mi è venuta in mente una cosa di colpo. – Senta, – gli faccio. – Ha presente le anatre che ci sono nel laghetto vicino a Central Park South? Quello piccolo? Lei per caso sa dove vanno, quelle anatre, quando l’acqua si ghiaccia? Non è che lo sa? – Ho pensato che c’era una probabilità su un milione. »

In questo nono capitolo, la notte di Holden, rientrato quasi “in incognito” a New York, si tinge di incontri ambigui e di incontri mancati: realizza di non poter e di non voler chiamare nessuno, né la sorella né Jane né Sally, nella solitudine di una cabina telefonica; sperimenta la sottile formalità di un taxista “furbacchione”, che mai gli avrebbe fatto compagnia in un locale; assiste alle particolari occupazioni di alcuni ospiti dell’hotel Edmont e, infine, tenta una confusa e scombinata telefonata alla signorina Faith Canvendish. Riecheggia, su tutto, un interrogativo: dove vanno le anatre del laghetto di Central Pack South quando l’acqua si ghiaccia?

Micol Bassi dona la voce a questo episodio

https://open.spotify.com/episode/4CaWrJV4nHLwRptmAsXwqs?si=Urh5N_b6SYC1w-2ezcuCAQ

Il Giovane Holden; capitolo X

“Mentre mi cambiavo la camicia, però, per un pelo non telefonai alla mia sorellina Phoebe. Avevo una gran voglia di parlare al telefono con lei. Una persona piena di buonsenso e via discorrendo. Ma non potevo arrischiarmi di chiamarla, perché era soltanto una ragazzina e senza dubbio non era in piedi né tanto meno vicino al telefono. Pensai che magari potevo riattaccare se rispondevano i miei genitori, ma non avrebbe funzionato nemmeno questo. Avrebbero capito che ero io. Mia madre sa sempre che sono io. È ultrasensibile. Ma francamente non mi sarebbe dispiaciuto di far quattro chiacchiere con la vecchia Phoebe”

Al risveglio, Holden sente un forte desiderio di prendere contatto con la sorellina Phoebe, ma il timore che al telefono risponda la madre lo spinge a desistere. In balia della solitudine, Holden esce dall’hotel e si reca in un locale, dove conosce alcune ragazze, con cui si intrattiene bevendo alcoolici, nel tentativo di sentirsi e di apparire più grande e maturo di quanto non sia…


Marta Menafra dona la voce per la lettura del decimo capitolo

https://open.spotify.com/episode/2bkLOmuBpf7jP1yv6O95Jn?si=IZMtS5rVTBawB30YSsm8BA

Il Giovane Holden; capitolo VIII

“Disse che la loro casa era proprio sulla spiaggia, e che avevano il campo da tennis e compagnia bella, ma io la ringraziai tanto e le dissi che sarei andato nell’America del Sud con mia nonna. E questa era proprio grande, perché mia nonna è troppo se mette il naso fuori di casa, tranne forse per andare a qualche dannato spettacolo diurno o che so io. Ma non andrei a trovare quel figlio di buona madre di Morrow per tutto l’oro del mondo, nemmeno se fossi sul lastrico”

Holden sotto la neve faticosamente si reca alla stazione, per prendere il treno verso New York. Sul vagone, inaspettatamente incontra la madre di un compagno di corso, che comincia con lui un dialogo ambiguo, in cui ironia, seduzione e malinconia si fondono con il rumore del treno che corre nella notte…

Sofia Menafra dona la voce per la lettura del capitolo ottavo

https://open.spotify.com/episode/6MZBLDoViJycRSJHh7makv?si=5OYw_OtpSouPl3ay_oiq_A

Il Giovane Holden; capitolo VII

“Di colpo ho deciso che quel che davvero volevo fare era portare via il culo dalla Pencey, quella notte stessa, e tanti saluti.”

Al suo rientro a casa Holden trova Ackley ancora sveglio, ma già a letto: Ackley gli chiede il motivo per cui faccia tanto chiasso e abbia la faccia imbrattata di sangue. Il ragazzo non risponde e si sdraia, in preda alla tristezza, sul letto di Ely. Si alza poco dopo e improvvisamente decide di partire per New York, abbandonando definitivamente la Pencey.


Margot Cavallini, a cui diamo il benvenuto nel nostro gruppo, dona la voce per la lettura di questo capitolo

https://open.spotify.com/episode/2531GN10DUET9UZqTkMGov?si=RjotG27uQMGB4oE2fZMmcg